Il modello organizzativo delle imprese multinazionali

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L’innovazione tecnologica e l’uso sapiente della leva normativa hanno enormemente favorito i processi di internazionalizzazione delle imprese, il cui potere non dipende soltanto dalla capacità produttiva, ma anche, e forse ormai soprattutto, dal sistema di relazioni commerciali, societarie e finanziarie che garantiscono l’integrazione pur nella frammentazione in ambito globale.

Il termine “multinazionale” sta a indicare una impresa che organizza e coordina attività che travalicano i confini nazionali[1]. Un’altra definizione molto efficace considera l’impresa multinazionale in senso moderno come “integrazione della frammentazione”[2]. La teoria economica ha iniziato a occuparsene solo di recente, ossia a partire dagli anni ’60, circa un secolo dopo l’emersione su larga scala di questo nuovo attore economico nei mercati globalizzati.

La Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio internazionale e lo sviluppo (Unctad) propone come definizione “quella dell’impresa che ha almeno una filiale all’estero di cui detiene almeno il 10% del capitale e sulla quale esercita il controllo”[3]. Lo schema del controllo e della partecipazione di società nella identificazione della multinazionale, indica come dal punto di vista legale l’internazionalizzazione delle imprese passi attraverso il modello del gruppo, vale a dire l’organizzazione e la gestione dell’impresa mediante più società collegate.

Un importante indicatore economico del legame fra lo sviluppo delle multinazionali e l’utilizzo di società controllate sono gli Investimenti Diretti Esteri (IDE, in inglese Foreign Direct Investment, FDI) che un operatore di mercato effettua in un paese diverso rispetto a quello in cui risiede il centro direttivo della sua attività (la holding). L’investimento viene realizzato mediante acquisizione di partecipazioni della società che si intende controllare all’estero (IDE Brownfield o M&A), oppure attraverso la creazione di una filiale nel paese in cui ci si intende insediare (IDE Greenfield); ciò al fine di consentire alla società “madre” di potere esercitare i poteri di direzione e di gestione della società partecipata o costituita.

L’integrazione dei mercati a livello mondiale è dipesa in misura sempre maggiore dagli IDE con operazioni di fusione e acquisizioni societarie internazionali.

Gli IDE possono assumere la forma di investimenti orizzontali o verticali. I primi consistono nel trasferimento di capitali, tecnologia e più in generale dei fattori che consentono la produzione in loco per soddisfare il mercato locale; tale strategia viene definita anti-trade poiché elimina la pratica dell’esportazione. Gli investimenti verticali si hanno invece quando il processo di internazionalizzazione dell’impresa passa attraverso la delocalizzazione dei vari stadi della produzione, i cui beni, attenzione, non sono destinati a essere consumati laddove vengono prodotti ma sono destinati a soddisfare le esigenze di consumo di altri paesi. Per tale ragione questa forma di IDE viene considerata pro-trade, cioè stimola il commercio internazionale. Quest’ultima tipologia di investimenti diretti si è notevolmente sviluppata a partire dalla seconda metà degli anni ’90, dando luogo a ingenti piani di delocalizzazione produttiva.

Gli scambi internazionali infragruppo rappresentano in tal senso una sottocategoria degli IDE.

Il controllo di attività estere in alternativa alle transazioni contrattuali con le imprese che operano nel territorio straniero risponde all’esigenza di garantire il governo delle varie fasi del processo produttivo attraverso una pluralità di società partecipate e/o controllate. La direzione “unitaria” dell’attività d’impresa si sgancia dal territorio, diviene autonoma rispetto a esso e la politica aziendale viene disegnata nell’ottica di una aggregazione “virtuale” di luoghi e di funzioni.

[1]     Cfr., Andrea Goldstein e Lucia Piscitello, Le multinazionali, Il Mulino, 2007, p. 9.

[2]     Cfr., Giovanni Balcet, Economia dell’impresa multinazionale, Giappichelli, 2009, Introduzione.

[3]     Cfr., Giovanni Balcet, Economia dell’impresa multinazionale, cit., p. 9.


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