Multinazionali, Global Value Chain e outsourcing internazionale: verso una nuova era della globalizzazione

Indice

L’imponente commercio internazionale dominato dalle imprese di gruppo necessita di approfondimenti statistici su cui stanno lavorando le più importanti organizzazioni internazionali interessate, a vario titolo, all’evoluzione della globalizzazione economica: FMI, Eurostat, Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), Organizzazioni delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale (UNIDO), Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), Banca Mondiale, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD)[1].

Lo sforzo compiuto da tali enti per la creazione di un sistema statistico che consenta di comprendere l’impatto che la struttura organizzativa delle multinazionali ha sull’economia globale e sulle politiche dei singoli paesi è dunque ancora in corso di sperimentazione. Attualmente presenta diverse lacune in ragione della non standardizzazione dei dati provenienti da diversi database, della mancanza di informazioni dettagliate, della necessità di analizzare altri aspetti del fenomeno sintetizzati in nuovi indicatori[2].

La base metodologica per la rilevazione statistica degli IDE è quella fornita dal FMI nel Manuale della bilancia dei pagamenti e della posizione patrimoniale sull’estero, sino a qualche anno fa giunto alla sesta edizione (BPM6) e di recente sostituito da una nuova versione (BPM7). Il documento è stato realizzato in collaborazione con altri enti internazionali, tra cui la BCE e l’Eurostat. Tale sistema è compatibile con il Sistema dei conti nazionali (SNA 2008), il Sistema europeo dei conti nazionali e regionali (SEC 2010), nonché con la quarta edizione della definizione di riferimento degli investimenti esteri (BD4) fornita dall’OCSE[3].

L’OECD fornisce un database (AMNE) contenente i dati sugli scambi con le consociate estere (Foreign Affiliates Statistics, FATS) basati su diverse variabili, ossia settore di attività, produzione, occupazione valore aggiunto, ricerca e sviluppo, esportazioni[4].

Gli scambi internazionali fra consociate rappresentano quindi un sottoinsieme degli IDE, poiché questi forniscono informazioni più generiche rispetto al fenomeno degli scambi infragruppo, ossia il valore monetario dei flussi di investimento esteri e la loro consistenza.

E’ stato posto in evidenza[5] che uno dei limiti di questi dati è che non è detto che la società controparte estera oggetto di rilevazione sia la destinataria finale dell’investimento (immediate beneficiary). Tipico esempio, il caso in cui i flussi di denaro transitano occasionalmente nei paesi che garantiscono vantaggi fiscali. Gli IDE pertanto non sono in grado di fornire informazioni dettagliate, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, sulle relazioni finanziarie e commerciali fra società appartenenti al medesimo gruppo.

La raccolta statistica dei dati e delle informazioni necessita quindi di una maggiore specializzazione sul fronte degli scambi e delle relazioni economiche e finanziarie infragruppo.

Nonostante tali limiti, l’UNCTAD delinea un quadro abbastanza esplicativo dell’enorme importanza assunta dalle multinazionali e dagli scambi fra società collegate nell’economia mondiale[6]. Dal 1990 gli IDE a livello globale sono cresciuti in modo esponenziale sino a raggiungere, nel 2012, i 23 trilioni di dollari[7]. Rispetto all’anno precedente, nel 2015 gli IDE globali hanno subito una variazione in aumento del 38% crescendo di 1,76 trilioni di dollari, il livello più alto dalla crisi finanziaria globale.

Gli Stati Uniti restano la più grande fonte e destinataria degli IDE, rappresentano circa un quarto degli afflussi mondiali prodotti nel 2015. L’Unione europea (UE), il Giappone, il Canada e la Svizzera insieme detengono circa il 90 per cento del patrimonio di investimenti diretti esteri negli Stati Uniti, mentre l’Unione europea e il Canada rappresentano le principali regioni geografiche destinatarie degli IDE statunitensi[8].

Le statistiche mostrano come una parte della crescita degli IDE sia dipesa da riorganizzazioni d’impresa su larga scala che coinvolgono grandi movimenti nella bilancia dei pagamenti ma poche variazioni in termini reali. Sono state realizzate fusioni transfrontaliere e acquisizioni (M&As) per 721 miliardi di dollari, rispetto ai 432 miliardi del 2014; questo è stato il principale fattore dietro il rimbalzo globale. Il valore di investimenti Greenfield è rimasto a un livello molto elevato, ossia 766 miliardi di dollari[9].

Diversi studi empirici dimostrano che le consociate estere rappresentano una quota via via crescente del totale delle esportazioni di input intermedi provenienti dalle multinazionali, e che nella maggior parte dei casi si tratta di scambi commerciali infra-impresa di gruppo[10]. Si stima che oltre il 30% degli scambi internazionali siano operati da consociate di imprese multinazionali – scambi intra-firm –, cioè un terzo delle esportazioni mondiali[11].

Statistiche più recenti del FMI mostrano che nel 2023 gli stocks di IDE sono cresciuti sino a raggiungere i 41 trilioni di dollari[12].

Sino al 1990 le vendite delle affiliate estere e le esportazioni verso fornitori esteri “indipendenti” erano pressoché uguali. Dopo il 1990 le imprese hanno iniziato a esportare prevalentemente in favore delle affiliate estere, e nell’arco di pochi anni questa tipologia di scambi è divenuta uno dei più importanti – se non ormai il più importante – canale commerciale internazionale[13].

Molte attività della catena del valore globale (GVC, Global Value Chain) sono condotte dalle società “madri” e dalle loro affiliate. Circa il 43% del commercio totale degli Stati Uniti si riferisce a scambi che avvengono all’interno della stessa impresa di gruppo (intra-firm). Le multinazionali statunitensi rappresentano soltanto l’1% del totale delle imprese operanti negli Stati Uniti, e dal 1990 contribuiscono per un terzo della crescita del PIL reale e quasi per la metà alla crescita della produttività del lavoro negli USA[14].

Storicamente le società “madri” statunitensi hanno prodotto una quota maggiore di valore aggiunto rispetto alle società affiliate. Nel 2014, le società “madri” residenti negli Stati Uniti hanno prodotto il 71,9 per cento del valore aggiunto di tutte le multinazionali operanti negli USA, in aumento rispetto al 69,4 per cento realizzato nel 2009[15]. Sempre nello stesso anno, si è rilevato che il 52,4% delle esportazioni USA sono state realizzate dalle società “madri” in favore delle affiliate e che il 41,3% delle importazioni USA hanno riguardato importazioni di merci dalle affiliate estere verso le società “madri” statunitensi[16].

La distribuzione regionale delle esportazioni destinate alle affiliate estere mostra che l’Europa è la principale destinataria del flusso commerciale, con il 27,7%, seguita dal Canada con il 27,2%, l’Asia e del Pacifico (23,5 per cento), e in America Latina e altri nell’emisfero occidentale (20,5 per cento). Circa la metà delle esportazioni sono indirizzate alle affiliate in Olanda (17,9 per cento), in Svizzera (17,2 per cento), e nel Regno Unito (16,9 per cento). Oltre due quinti delle esportazioni degli Stati Uniti verso consociate estere in Asia e Pacifico sono stati spediti a Singapore (25,1 per cento) e in Cina (20,1 per cento). In America Latina e in altre parti dell’emisfero occidentale, oltre due terzi delle esportazioni verso consociate estere sono state destinate al mercato messicano (67,8 per cento)[17].

Una quota significativa del commercio US-EU riguarda gli scambi realizzati tra società dello stesso gruppo multinazionale[18]. Le società affiliate statunitensi operanti in Europa contribuiscono per circa il 13% del PIL dell’UE (con un fatturato di 2,1 trilioni di dollari), mentre le affiliate UE negli Stati Uniti rappresentano l’11% del PIL degli Stati Uniti (con vendite pari a 1,6 trilioni di dollari).
Nel 2002 gli scambi commerciali tra società affiliate residenti nelle due parti dell’Atlantico hanno rappresentato il 47% ($ 172.000.000.000) del totale degli scambi di merci UE-US, con un aumento del 50% ($ 307.000.000.000) dal 2012. E’ stato inoltre posto in evidenza che le esportazioni intra-firm rappresentano il 32% del totale delle esportazioni US verso l’Europa, quota rimasta relativamente stabile nel decennio 2002-2012. Le importazioni intra-firm hanno invece rappresentato il 62% del totale delle importazioni statunitensi provenienti dall’EU. Quasi la metà del valore aggiunto prodotto dalle affiliate estere statunitensi in Europa si è concentrato in tre paesi: Regno Unito, Germania e Irlanda.

L’Irlanda è in assoluto il paese con l’economia maggiormente dipendente dalle affiliate estere di imprese multinazionali. Esse forniscono circa l’80% del valore aggiunto nel settore manufatturiero e il 40% del valore aggiunto nel settore dei servizi[19].

Per quanto riguarda in modo specifico l’Europa, la maggior parte delle imprese a controllo estero sono residenti in uno dei paesi dell’UE[20]. In alcuni paesi vi è comunque un’alta percentuale di imprese a controllo estero al di fuori della UE. Fra questi spicca il Lussemburgo con una quota che si aggira intorno all’80%.

In un recente report (2025)[21] del dipartimento di Statistica del FMI viene posta particolare attenzione al fatto che gli scambi infragruppo – ovvero tra società affiliate – e gli scambi tra società indipendenti non possono essere considerati uguali, poiché nel primo caso le transazioni producono spesso valori di scambio e prezzi alterati sia al rialzo che al ribasso, definendoli esplicitamente come “distorti” e dunque sostanzialmente inaffidabili ai fini del rilevamento e del monitoraggio statistico (par. 3.113, 3.114, 3.115, 3.226, 8.18, A15.21).

Anche ai fini dell’analisi del debito, quelli interaziendali vengono identificati separatamente poiché presentano implicazioni di rischio e “vulnerabilità” differenti rispetto ai debiti tra parti non correlate (par. 6.26). il Report mostra anche l’importanza dei debiti tra società collegate e degli interscambi tra le stesse legate proprio ai finanziamenti ricevuti (par. 7.20, 7.21 e 7.22).

Nelle successive pagine si tenta di dare una dimensione al fenomeno degli scambi tra società affiliate, vista l’importanza che questo assume sull’identità e sulla quantità degli scambi transfrontalieri, spingendosi sino a definire una società controlla come una “quasi-corporation” (par. 10.33).

Come si vedrà meglio in seguito, il fenomeno della “economia apparente a contraente unico” trova conferma nei tentativi di dare una dimensione agli scambi di inputs intermedi infragruppo ponendo l’accento sui contratti di fornitura tra controllante e controllata, dunque sul correlato fenomeno dell’outsourcing (par. 10.56 ss.).

Anche l’OECD sta indagando attentamente sul fenomeno cercando di fornire le basi metodologiche per una corretta rappresentazione statistica degli IDE in ragione della crescente importanza degli scambi infragruppo a livello internazionale, ovvero delle relazioni commerciali internazionali, ma anche sui rapporti di credito e di debito tra le consociate[22].

[1]     Cfr. Timothy J. Sturgeon, Global Value Chains and Economic Globalization – Towards a New Measurement Framework, Report to Eurostat, Industrial Performance Center,  Massachusetts Institute of Technology, maggio 2013.

[2]     L’importanza della statistica nella comprensione dei fenomeni economici e sulla necessità di ulteriori analisi ed approfondimenti Working Party on International Trade in Goods and Trade in Services Statistics, STD/CSSP/WPTGS/M(2016).

[3]     Fonte: http://ec.europa.eu/eurostat/documents/39118/6581752/Communication-changes-FDI.pdf.

[4]     Sito OECD.

[5]     Banca d’Italia, Alessandro Borin e Riccardo Cristadoro, Gli investimenti diretti esteri e le multinazionali, n. 243, ottobre 2014.

[6]     Cfr., UNCTAD, World Investment Report 2016: Investor Nationality: Policy Challenges, United Nations, 2016.

[7]     Cfr., UNCTAD, Global Value Chains: Investment and Trade for Development, United Nations, 2013. Per ciò che concerne studi meno recenti sul fenomeno, cfr. Marcos Bonturi and Kiichiro Fukasaku, Globalisation and intra-firm trade: an empirical note, OECD, Economic Studies, No. 20, Spring, 1993.

[8]   Cfr., M. Ayhan Kose, Csilla Lakatos, Franziska Ohnsorge e Marc Stocker, The Global Role of the U.S. Economy Linkages – Policies and Spillovers, in Policy Research Working Paper 7962, World Bank Group, february 2017.

[9]     Cfr., UNCTAD, World Investment Report 2016: Investor Nationality: Policy Challenges, cit.

[10]    Cfr., Frances Ruane, FDI Affilaites, Fragmentation and intra – firm trade, 5 settembre 2014, p. 3.

[11]    Cfr., UNCTAD, World Investment Report 2011: Non Equity Modes of International Production and Development, New York and Geneva, 2011. Cfr., inoltre, paper Uctad TAD/TC(2016)6/REV1.

[12] Cfr. Integrated Balance of Payment and Internationale Position Manual, Seventh Edition (BPM7), Statistic Department IMF, in www.imf.org.

[13]    Cfr., Sandra Stojadinović Jovanović, Interdipendence of International Trade Investment Flows in the post crisis period, in Ekonomika, vol. 16, n. 2, 2016.

[14] Cfr.,  M. Ayhan Kose, Csilla Lakatos, Franziska Ohnsorge e Marc Stocker, The Global Role of the U.S. Economy Linkages – Policies and Spillovers, cit., (McKinsey Global Institute 2010).

[15]    Cfr. Sarah P. Scott, Activities of U.S. Multinational Enterprises in the United States and Abroad – Preliminary Results From the 2014 Benchmark Survey, Bureau of Economic Analysis (BEA), dicembre 2016, p. 4.

[16]    Ivi, p. 3.

[17]    Ivi, p. 11.

[18]    Per i dati di seguito riportati cfr. C. Lakatos and T. Fukui, EU-US Economic Linkages: The role of multinationals and intra-firm trade, European Commission, Issue Paper 2-2013.

[19]    Heike Joebges, Crisis recovery in a country with a high presence of foreign owned companies The case of Ireland, in Hans-Böckler-Stiftung, Workin Paper, n. 175, gennaio 2017.

[20]    Foreign affiliates statistics – FATS, Eurostat, in http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Main_Page, 2014.

[21] Cfr. Integrated Balance of Payment and Internationale Position Manual, Seventh Edition (BPM7), Statistic Department IMF, in www.imf.org.

[22] OCSE (2025), Definizione di riferimento OCSE degli investimenti diretti esteri (quinta edizione), OECD Publishing, Parigi, https://doi.org/10.1787/7f05c0a3-en.


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