Il ruolo della normativa settoriale per rimediare alla manifestazione patologica del fenomeno giuridico del gruppo di società: i tentativi di regolamentazione in Europa

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Il gruppo di società, nonostante sia il più importante operatore economico a livello mondiale è quindi un quasi fantasma giuridico.

Il “quasi” si riferisce alla elaborazione normativa settoriale attraverso cui si tenta di considerare il gruppo di impresa come un soggetto passibile di responsabilità unitaria.

In tal senso, la più importante è la normativa europea antitrust. Nell’esercizio delle sue funzioni di controllo del rispetto delle leggi a tutela della concorrenza, la Commissione utilizza il principio della unica unità economica ai fini dell’attribuzione delle responsabilità alla controllante qualora la sua controllata violi il diritto antitrust. Il presupposto teorico che consente alla Commissione di operare in tal senso è la riconducibilità della controllata e della controllante alla medesima unità economica, ossia all’impresa unica. La dottrina dell’unità economica applicata alle relazioni di gruppo – che come giustamente osservato altro non è che una estrinsecazione della generica nozione di impresa[1] – è stata frutto di una serie di decisioni della Commissione e della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, che da molto tempo, ormai, rappresentano la base giuridica per l’estensione dell’illecito al gruppo nel suo complesso. Pian piano la giurisprudenza europea ha fatto propria una presunzione relativa (iuris tantum) circa il concreto esercizio dell’influenza dominante da parte della controllante, utilizzata dalla Commissione nell’ipotesi di controllo totale o quasi totale del capitale della controllata[2], che si traduce in un ribaltamento dell’onere della prova, ritenuta dalla CGE come un elemento rientrante nei canoni della ragionevolezza[3]. La presunzione opera dunque sul presupposto che controllante e controllata rappresentino una unica impresa. Spetta dunque alla società madre dimostrare quanto imputatole dalla Commissione.

Non sono di certo mancate critiche a tale impostazione[4], che mettono in evidenza come la presunzione – nel caso specifico in cui la controllante detenga il 100% delle partecipazioni – debba considerarsi quasi assoluta in ragione delle difficoltà della casa madre di dimostrare il contrario, traducendosi, di fatto, in una responsabilità diretta della controllante sul comportamento anticoncorrenziale delle controllate.

Il cortocircuito normativo fra nozione di impresa e distinta personalità giuridica in ambito di gruppo si manifesta anche sotto forma di un altro quesito, da altri ben discusso[5], ossia la distinzione tra il potere (capacità) di esercitare una influenza determinante e il suo concreto esercizio, che la posizione assunta dalla CGE e dalla Commissione ha praticamente reso quasi inafferrabile. In buona sostanza, se dal punto di vista teorico l’aver chiarito che anche nel caso di partecipazione totalitaria si tratti di una presunzione semplice e non assoluta, garantendo il tal modo una certa compatibilità giuridica fra diritti antitrust e i canoni classici del diritto societario, dal punto di vista pratico la giurisprudenza comunitaria ha messo in evidenza una realtà fattuale ben diversa: le società controllate non sono autonome, in special modo quando un altro soggetto detiene il 100% delle quote di partecipazione.

La necessità di estendere le responsabilità della capogruppo alle società controllate si sta diffondendo anche in altri ambiti settoriali, come quello del lavoro, dell’ambiente e in quello penalistico. La tendenza sembra essere proprio quella di arrivare a una responsabilità diretta per vie traverse, pur mantenendo in vita – non si ancora per quanto tempo – il principio dell’autonomia formale delle società controllate.

Eppure, in ambito europeo il tentativo di regolamentare il fenomeno risale a molti anni addietro. Nel dicembre del 1984[6], dopo diversi anni di studi, fu proprio la Commissione europea a proporre la realizzazione della Nona Direttiva sui gruppi societari, che fu accantonata per via del mancato consenso di alcuni paesi, in particolare Francia e Gran Bretagna. L’obiettivo della direttiva era quello di tutelare la società controllata dalla sua sottoposizione al potere di direzione esterno, nella consapevolezza che le società eterodirette sono private della propria indipendenza economica e che l’interesse del gruppo tende a essere prevalente rispetto a quello delle singole società. Il progetto era rivolto in modo specifico ai gruppi in cui la controllata è una società per azioni, al fine di tutelare gli interessi dei soci di minoranza, dei creditori ma anche dei lavoratori[7].

Quasi vent’anni è stato necessario attendere per veder tornare alla ribalta il tema in ambito europeo.

Nel 2002 un gruppo di esperti nominato dal Commissario Bolkestein aveva presentato una relazione – divenuta poi oggetto di una Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo – che espone la necessità di modernizzare il diritto delle società e rafforzare il governo societario nell’Unione europea, in cui viene riproposto l’obiettivo di realizzare una regolamentazione del fenomeno dei gruppi societari. E’ stato tuttavia sottolineato dalla Commissione che non era tra i suoi obiettivi riproporre la nona direttiva, poiché non ha ritenuto più opportuno introdurre un atto legislativo distinto per i gruppi, preferendo intervenire su problematiche riguardanti settori specifici, ossia trasparenza e informazione nonché la difesa di particolari gruppi d’interesse, nel senso di realizzazione di norme a tutela dei creditori e degli azionisti di minoranza. Particolare interesse viene mostrato nei confronti della creazione di gruppi piramidali abusivi, e ancor più in dettaglio quelli che inglobano società quotate in borsa.

Negli anni successivi sono state messe in atto altre iniziative in ambito comunitario[8], ma si è ancora lontani dal progetto di realizzazione di un quadro giuridico organico dell’UE in materia di gruppi.

Molto interessante anche sotto il profilo del censimento e del monitoraggio del fenomeno dei gruppi è la recente direttiva (UE) 2025/25, entrata in vigore il 30 gennaio 2025, che mira a incentivare la digitalizzazione delle informazioni relative alle società e il relativo accesso in favore degli stakeholders, nella consapevolezza delle criticità sui sistemi di interconnessione dei database utili a tal fine. Ciò sul solco degli obiettivi già fissati dalle precedenti direttive (UE) 2017/1132 e 2019/1151.

Meritano di essere citate anche le direttive (UE) 2014/95 e 2025/872 (DAC9), la prima riguarda gli obblighi di informazione non finanziarie in capo alle grandi imprese e quindi ai gruppi di grandi dimensioni, ossia quelle con più di 500 dipendenti. Mentre ancor più esplicitamente rispetto al fenomeno dei gruppi, con la DAC9 le istituzioni europee tentano di contrastare il fenomeno della competizione fiscale al ribasso tra gli stati che ospitano le società collegate ai grandi gruppi, con ciò fornendo di fatto la giusta prospettiva per cui dal punto di vista fiscale gli stati sono costretti a una competizione a perdere, come lo sono i lavoratori di diverse nazionalità. Non sono gli stati che competono tra loro ma le multinazionali che li spingono verso un gioco al ribasso, dettando di fatto non solo parte della politica fiscale ma anche della politica economica e sociale delle nazioni ospitanti.

I numerosi tentativi di intervento in ambito europeo che toccano distintamente taluni aspetti dell’agire dell’impresa di gruppo mostrano che l’interesse politico è altissimo e che la standardizzazione delle informazioni e delle banche dati diviene uno degli strumenti chiave affinché le istituzioni nazionali non siano costrette a subire passivamente le derive patologiche dei mercati globalizzati.

L’aspetto che vale comunque la pena evidenziare ai fini del presente studio è che la direzione politica che si sta seguendo prevede la creazione di norme ad hoc per la tutela di specifici interessi – come gli introiti fiscali degli Stati dove risiedono le multinazionali – che orbitano attorno al gruppo di società, tralasciando – almeno per il momento – l’essenza del fenomeno dell’impresa unica di gruppo, e quindi la necessità di considerare il gruppo quale unica entità cui imputare responsabilità legali in ordine all’esercizio dell’attività d’impresa, e conseguentemente la necessità di fornire una definizione universale di gruppo.

Per tali ragioni, si ritiene che il lavoro operato dalla Commissione europea in ambito giurisprudenziale rappresenti a oggi il passo più concreto nel riconoscere le responsabilità della controllante. Si tratta evidentemente di un principio sottostante ai rapporti di gruppo praticamente inverso a quanto previsto dall’ordinamento tedesco, che disciplina espressamente il diritto della capogruppo – mediante la previsione di un contratto di dominio – a impartire direttive alla società controllata, talora anche pregiudizievoli, in nome dell’interesse superiore di gruppo.

In linea generale, può dirsi che i tentativi di regolamentazione nonché il dibattito tra i giuristi patiscono l’impossibilità di rendere sovrapponibili autonomia ed eterodirezione, rendendo deboli gli approcci teorici.

Le tipologie di gruppo prevalenti in ambito europeo sono quello tedesco e quello italo-francese.

Il primo si basa sulla distinzione tra “gruppi contrattuali”, che prevedono la responsabilità in capo alla holding tendendo in tal senso a una sostanziale sovrapposizione identitaria tra le società, e “gruppi di fatto”, che invece presuppongono il divieto alla capogruppo di sfruttare le controllate e conseguentemente questa non viene gravata di responsabilità dirette in favore dei portatori di interesse delle società appunto “controllate”.

Il modello italo-francese assume come base teorica l’idea che il potere di controllo esercitato dalla controllante sia inevitabile – quindi scarta a monte il gruppo di fatto – e lo giustifica con la logica dei “vantaggi compensativi”, purché non vengano pregiudicati gli interessi delle controllate.

Sarebbe ridondante ripetere ancora una volta le contraddizioni in termini evidenti anche nella sintesi sui modelli di gruppo appena citati. Nel caso dell’Italia, vale la pena citare un approccio teorico[9] che al fine di responsabilizzare la capogruppo propone di usare lo statuto delle società per vincolare ai propri doveri chi governa il gruppo, visto che d’altronde, come viene messo in evidenza, l’attività di direzione e coordinamento è in fondo già codificata da norme di rango primario (art. 2497 c.c.).

Tale approccio sposta l’asse dell’attenzione a livello intersocietario e spinge verso una sorta di formalizzazione della tipologia di controllo effettivamente posta in essere dalla controllante.

Tuttavia, difficilmente gli statuti societari possono fungere da controllori dell’agire della controllante. Anzitutto perché l’eterodirezione precede la nascita della società controllata, per cui difficilmente si può pensare di fare affidamento sulla capacità di autodisciplina di chi trae vantaggio dal potere di controllo, appunto la controllante. Proprio per tale ragione, la trascrizione del modello organizzativo di gruppo negli statuti – ovvero dell’attività di direzione e coordinamento calata nella realtà aziendale – assumerebbe la forma di un adempimento formale, il più possibile generico e vago.

Ma non è solo questo. Come già detto, l’unica dimensione in cui vengono realmente definiti i modelli organizzativi infragruppo è quella contrattuale, dello scambio commerciale, cioè quella in cui effettivamente la capogruppo e le controllate assumono responsabilità e diritti reciproci di natura legale, con tutte le conseguenze economiche, lavorative e finanziarie che ne derivano.

A tal proposito, si ribadisce che il modo attraverso cui si manifesta concretamente l’impresa unica di gruppo è quello degli scambi infragruppo, un fenomeno che può essere definito come “sistema dinamico di forniture incrociate”[10]. Proprio la dinamicità delle relazioni contrattuali infragruppo rende inefficace qualsiasi definizione ex ante dei modelli organizzativi di gruppo.

Questa prassi richiama già solo istintivamente il fenomeno delle partecipazioni incrociate, le quali trovano precisi limiti legali per evitare abusi di posizione dominante e indebite alterazioni patrimoniali.

Ma tali circostanze possono però agevolmente manifestarsi con le forniture incrociate, che hanno chiaramente conseguenze su tutti gli elementi che determinano il valore di una società: economico, commerciale, finanziario e patrimoniale.

[1]     Ivi.

[2]     Impostazione di recente ribadita dalla Corte Di Giustizia dell’Unione Europea; sezione IV; sentenza 10 aprile 2014, cause riunite C-247/11 P e C-253/11 P.

[3]     Corte, 18-7-2013, causa C-501/11, Schindler Holding Ltd, § 108; 29-9-2011, causa C-521/09 P, Elf Aquitaine, § 59.

[4]     Conclusioni dell’avvocato generale Bot, presentate il 26-10-2010, in cause riunite C-201/09 P, C-216/09 P, ArcelorMittal Luxembourg: «… resto convinto che la responsabilità della società controllante non possa essere dimostrata soltanto sulla base di una presunzione fondata sulla detenzione del capitale. Infatti, benché la detenzione del 100% del capitale sia sufficiente a dimostrare l’esistenza del collegamento sotto il profilo societario, ritengo che essa non possa far presumere di per sé l’esercizio effettivo di un potere di direzione costituente una complicità nell’infrazione. Occorre, a mio parere, che la Commissione produca altri elementi di prova atti a dimostrare l’assenza di autonomia della società controllata, e ciò allo scopo di tutelare i diritti fondamentali riconosciuti alle imprese…la presunzione di responsabilità resta, per sua stessa natura, un’eccezione al principio della presunzione di innocenza».

[5]     Federico Ghezzi e Maria Teresa Maggiolino, L’imputazione delle sanzioni antitrust, in Rivista delle società, 2015.

[6]     Cfr. per il testo della direttiva, Società, 1987, p. 1308 ss.

[7]     Per questi ed altri aspetti inerenti il progetto cfr. AA.VV., Percorsi di diritto societario europeo, Elisabetta Pederzini (a cura di), Giappichelli, 2016, p. 66-67.

[8] Gli interventi in ambito europeo che a vario titolo toccano il tema dei gruppi di società sono davvero copiosi. Di seguito un elenco non esaustivo: il Regolamento CE 2157/2001 relativo allo statuto della Società Europea (SE); la Direttiva 2003/123/CE sull’aggregazione imprenditoriale; la Direttiva 2006/68/CE e la Direttiva 2012/30/UE sulla salvaguardia di investitori e creditori delle società per azioni dalla loro costituzione alla loro conduzione; la Direttiva 2013/34/UE sui bilanci d’esercizio e sui bilanci consolidati;  la Direttiva 2014/95/UE sugli obblighi di informazioni non finanziarie in capo alle grandi imprese e quindi ai gruppi di grandi dimensioni; il Regolamento 848/2015 sulle procedure di insolvenza transfrontaliere; le direttive (UE) 2017/1132 e 2019/1151 sulla standardizzazione delle norme relative al diritto societario degli stati membri e l’interconnessione delle banche dati riguardanti le imprese; la Direttiva 2019/2121/UE sulle trasformazioni, fusioni e scissioni transfrontaliere; la Direttiva 2025/872/UR (DAC9) sul contrasto alla competizione fiscale al ribasso tra gli stati.

[9] Cfr., Giuliana Scognamiglio, I Gruppi di società: poteri e responsabilità, in Il diritto societario europeo: quo vadis?, Giuffrè, 2023, p. 247 ss.

[10] Ipotesi che rientra nella più generica ipotesi prevista dal terzo comma dell’art. 2359 c.c. che stabilisce che debbano essere considerate società controllate quelle “sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa”.


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