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Le tradizionali teorie economiche considerano il commercio come uno scambio tra entità economiche con interessi contrapposti. Dalla teoria ricardiana dei vantaggi comparati (secondo cui l’elemento determinante del commercio internazionale è la specializzazione dei paesi nella produzione di quei beni su cui si ha un vantaggio comparato misurato in termini di minore costo-opportunità), al teorema di Heckscher e Ohlin (il commercio internazionale è determinato non soltanto dalla produttività del lavoro ma anche da una diversa dotazione di altri fattori produttivi), l’assunto di base è lo scambio tra una impresa che vende e una impresa che acquista.
Negli studi più recenti a partire dagli anni ’80, nella consapevolezza che il commercio internazionale incorpora in sé fenomeni non inclusi nelle teorie più tradizionali, l’attenzione è stata focalizzata sulle dinamiche del commercio di input intermedi.
Talune ricerche hanno posto al centro dell’analisi la competitività basata sui costi e sui prezzi dei fattori[1]. In altri casi, è stato anche adottato l’approccio dei diritti di proprietà[2], ossia elaborazioni teoriche che considerano la proprietà dei mezzi di produzione, ovvero degli investimenti, una variabile cruciale che influenza le contrattazioni tra acquirenti e venditori, facendo inclinare l’ago della bilancia in favore di chi li possiede, tenendo conto delle fasi negoziazione ex ante ed ex post in ragione dell’incompletezza dei contratti che regolano lo scambio.
L’assunto di base degli scambi fra imprese differenti implica che ciascuna di esse operi nel mercato investendo nel proprio sistema produttivo per migliorare la produttività dei fattori ed essere in tal modo competitiva. Negli scambi intra-firm (“a contraente unico”) tali dinamiche sono compromesse.
Gli studi sul commercio internazionale, pertanto, analizzano gli scambi intra-firm non considerando come assunto di base lo scardinamento dei fondamentali dell’economia dovuto alla circostanza che i rapporti commerciali tra società del medesimo gruppo si sostanziano in uno scambio apparente a contraente unico.
Per esempio, una delle più importanti elaborazioni teoriche sull’argomento[3] propone un’analisi dei processi di specializzazione verticale della produzione dell’impresa multinazionale basata sulla possibilità di scelta tra il ricorso a un fornitore esterno o, in alternativa, a una sua filiale (FDI) per l’ottenimento di input intermedi. Il modello considera due livelli di contrattabilità in capo alla “casa madre” (principal): quello con il dirigente della filiale, qualora scelga l’FDI, e quello con il fornitore esterno, ossia una impresa non soggetta al suo controllo. Essendo il manager considerato come un dipendente della «casa madre», questa può far leva su incentivi di tipo manageriale per ottenere il massimo rendimento, nonché su una maggiore possibilità di monitorarne le azioni, cosa che può accadere in modo tutt’al più molto ridimensionato con un’impresa indipendente. Si rileva inoltre che nel caso di affidamento in-house è la società madre ad accollarsi i costi di produzione iniziali, mentre in caso di ricorso all’outsourcing indipendente tali costi gravano sul fornitore esterno. In sintesi, la scelta della forma organizzativa è condizionata dai vincoli contrattuali, considerati frutto di una negoziazione con una controparte, il manager o l’outsourcer.
Se si utilizza l’approccio dell’economia a contraente unico, nei casi in cui la produzione di input venga delegata ad affiliate estere, il potere di contrattazione assume una forma e una natura diversa rispetto a quella prospettata.
Per comprendere appieno l’importanza di tale fenomenologia, occorre sempre considerare la dimensione legale dello scambio, dove la fornitura di input intermedi intra-firm e la fornitura di input intermedi con un outsourcer indipendente è appunto identica, nel senso che in entrambi i casi si stipula un contratto di scambio commerciale tra un venditore e un acquirente.
Tuttavia, il contenuto dei rispettivi contratti esprime logiche economiche e commerciali strutturalmente differenti. Quando una holding negozia con un fornitore indipendente, si realizza una contrattazione che rispecchia interessi contrapposti, di chi vende e di chi acquista. Quando il contratto viene stipulato tra società controllante e società controllata, tale contrapposizione è pressoché nulla.
Ne deriva che la scelta di rivolgersi a una impresa esterna o a una affiliata dipende più che altro dalla capacità di monitorare e dirigere l’ordinario funzionamento delle attività svolte dal personale della società estera controllata, obiettivo funzionale all’accaparramento del valore aggiunto che generalmente un imprenditore indipendente, con i propri investimenti, cerca di creare per sé.
La produttività delle società controllate è un dato che dipende in misura prevalente dalle scelte sugli investimenti poste a monte dalla “società madre”, ovvero dalla controparte contrattuale.
La teoria dei giochi di Nash – invocata in merito alle distorsioni contrattuali ex ante ed ex post con l’approccio dei diritti di proprietà – non è pertanto in grado di spiegare le strategie e gli equilibri del commercio intra-firm. Il giocatore è soltanto uno: l’impresa di gruppo, sebbene questa operi mediante più entità legali. Lo scambio avviene nella dimensione legale, mentre in quella economica reale vi è una impresa unica che ha la necessità di produrre nel suo complesso maggiori profitti e sostenere minori costi. Il vero contraente, ovvero il giocatore, non è un’altra impresa, semmai un insieme di portatori di interessi della società controllata, tra cui lavoratori e creditori.
La teoria dell’economia apparente a contraente unico è coerente con i risultati di talune ricerche empiriche[4] secondo cui l’espansione delle importazioni di input intermedi da affiliate estere è più alta nei paesi ospitanti con salari bassi, con minori costi commerciali e dove è possibile sfruttare altre variabili favorevoli, tra cui condizioni politiche più vantaggiose.
[1] Cfr. Helpman E., Krugman P., 1986, che considerano l’esistenza di economie di scala interne (ma anche esterne) all’impresa che partecipa agli scambi internazionali, nonché altre variabili microeconomiche come i gusti dei consumatori.
[2] Teoria esposta per la prima volta da Grossman e Hart (1986), cui si sono aggiunti i contributi di Hart and Moore (1990) e Hart (1995). Più recentemente, in senso critico, Tadelis and Williamson (2012). Cfr. gli studi di Antras per un focus specifico sul commercio intra-firm. Cfr. inoltre, anche per una sintesi delle teorie in campo, il recente contributo di DanielMüller e Patrick W.Schmitz, Transaction costs and the property rights approach to the theory of the firm, in European Economic Review, vol. 87, August 2016, pp. 92-107.
[3] Cfr. Grossman e Helpman, Managerial incentives and the international organization of production, Journal of International Economics, n. 63, 2044, pp. 237-262. Sul tema, cfr. inoltre Pol Antràs, Firms, Contracts, and Trade Structure, The Quarterly Journal of Economics, MIT Press, vol. 118(4), pp. 1375-1418; Toshiyuki Matsuura and Banri Ito, Intra-firm trade and contract completeness: Evidence from Japanese affiliate firms, in Internationalization of Japanese Firms: Evidence from Firm-level Data, Springer Japan, 2013, pp. 151-169.
[4] Cfr. Gordon H. Hanson, Raymond J. Mataloni, Jr. e Matthew J. Slaughter, Vertical Production Networks in Multinational Firms, The Review of Economics and Statistics, 2005 87:4, pp. 664-678.