Work

La Cina spiazza l’Occidente, verso il controllo statale dei settori strategici dell’economia globale: non solo terre rare

Quando nel 2018 l’amministrazione Trump diede avvio alla cosiddetta “guerra dei dazi” contro la Cina, l’obiettivo era semplice: colpire l’export cinese, ridurre il deficit commerciale e riportare la manifattura negli Stati Uniti.

Ma Pechino non rispose con una guerra di tariffe: rispose con una riforma strutturale della propria economia, trasformando i settori industriali più vulnerabili in bastioni di potere statale.

Mentre Washington puntava sul breve termine – dazi e restrizioni – la Cina rispose con una strategia di lungo periodo: riconvertire il proprio modello industriale in un sistema integrato di grandi gruppi pubblici capaci di assorbire gli shock esterni.

È in questa chiave che la “sconfitta silenziosa” dei dazi va letta oggi.

L’idea di fondo è semplice ma radicale: rendere i settori esposti ai dazi americani non più frammenti di mercato, ma pilastri coordinati dallo Stato.

Il caso più emblematico è quello delle terre rare, un insieme di 17 elementi chimici indispensabili per l’elettronica, i veicoli elettrici, le turbine eoliche e l’industria della difesa. Nel dicembre 2021, il governo ha annunciato la nascita della China Rare Earth Group Co., Ltd., un colosso pubblico creato dalla fusione di tre imprese statali già operanti nel comparto: China Minmetals Rare Earth Co., Chinalco Rare Earth & Metals Co. e Ganzhou Rare Earth Group Co.

La nuova entità, con sede a Ganzhou (provincia di Jiangxi), oggi controlla circa il 70% della produzione cinese di terre rare pesanti e rappresenta il perno di una strategia economica e geopolitica di lungo periodo.

Le tre imprese fuse erano già formalmente statali, ma operavano come entità separate, spesso in competizione tra loro, con assetti azionari ibridi: alcune erano quotate in borsa, altre avevano partecipazioni locali o collaborazioni con imprese private e straniere. Il risultato era una frammentazione produttiva che, secondo Pechino, ostacolava la pianificazione industriale e favoriva fenomeni di dumping interno, contrabbando e perdita di margini tecnologici.

La fusione del 2021 ha eliminato questa frammentazione. Con un unico soggetto controllato dalla SASAC (State-owned Assets Supervision and Administration Commission), il governo ha di fatto nazionalizzato l’intera filiera delle terre rare, integrando estrazione, raffinazione e commercializzazione sotto una sola regia.

Il capitale privato è stato conseguentemente limitato.

Prima della fusione, il capitale privato – sia cinese che estero – partecipava solo in forma indiretta. Le imprese pubbliche, come China Minmetals Rare Earth, erano quotate alla Borsa di Shenzhen: lo Stato deteneva il 60–70% delle azioni, mentre il restante 30–40% era distribuito tra investitori privati, fondi e banche. Si trattava del modello definito “mixed ownership” (proprietà mista), introdotto in Cina con la riforma del 2013–2015 per attrarre capitali privati senza cedere il controllo strategico.

Gli investitori potevano partecipare ai dividendi o speculare sui titoli, ma non avevano voce nelle decisioni aziendali. Il potere restava saldamente nelle mani del management pubblico e, in ultima istanza, del Partito Comunista Cinese. Come recita un famoso slogan della riforma: “Il capitale privato partecipa, ma lo Stato guida.”

Le multinazionali non possedevano quote dirette, ma collaboravano attraverso joint venture operative, accordi di fornitura tecnologica o licenze di estrazione.

Tuttavia, con l’entrata in vigore della Foreign Investment Law del 2020, il settore delle terre rare è stato classificato come “ambito sensibile per la sicurezza nazionale”. Da quel momento, ogni partecipazione estera è stata sottoposta a un regime autorizzativo speciale, e in molti casi non più consentita. Le partnership con società straniere (soprattutto giapponesi, statunitensi e australiane) sono state ridotte a rapporti commerciali subordinati: Pechino controlla l’offerta, mentre i partner stranieri sono semplici acquirenti o licenziatari di tecnologia.

In sostanza, non vi è stata un’espropriazione formale, ma una progressiva marginalizzazione del capitale estero fino a renderlo irrilevante nel processo decisionale. Una nazionalizzazione di fatto.

La costituzione della China Rare Earth Group Co. non è un atto di rottura, bensì il culmine di un percorso iniziato da oltre un decennio. La Cina ha compreso che il controllo delle terre rare equivale a un vantaggio strategico globale, comparabile al controllo delle fonti energetiche nel Novecento. Attraverso una serie di fusioni, riacquisti e restrizioni all’investimento, Pechino ha consolidato un settore interamente pubblico e verticalmente integrato.

Oggi il capitale privato – interno o estero – può partecipare solo in posizione minoritaria e finanziaria, mentre il controllo effettivo e la governance sono totalmente statali. Non si tratta di un’espropriazione, ma di una ri-definizione dei diritti di proprietà all’interno di un sistema in cui il mercato è subordinato agli obiettivi politici e di sicurezza nazionale.

L’avvio di una nuova fase del capitalismo cinese e globale
Il caso della China Rare Earth Group è emblematico di una nuova fase del capitalismo cinese: non più orientato alla liberalizzazione, ma alla centralizzazione strategica nei settori ad alto valore tecnologico.

Mentre gli Stati Uniti promuovono il re-shoring produttivo e l’Europa discute di “autonomia strategica”, la Cina ha già completato la transizione verso un modello di capitalismo di Stato integrato, in cui la pianificazione industriale, la finanza pubblica e la regolazione degli investimenti si fondono in un unico disegno geopolitico.

La nascita della China Rare Earth Group Co. non rappresenta quindi un episodio isolato, ma un paradigma: la trasformazione di un settore sensibile da economia mista a economia interamente statale, attraverso strumenti societari, giuridici e finanziari sofisticati.

Il capitale privato non è espulso, ma re-inquadrato; la sovranità economica è riaffermata non con espropri, ma con fusioni e concentrazioni. È la nazionalizzazione del XXI secolo: silenziosa, efficiente e perfettamente conforme alla logica del capitalismo di Stato cinese.

Nel 2020, con l’entrata in vigore della Foreign Investment Law, la Cina ha dunque segnato una svolta cruciale nella propria politica industriale e di investimento.
Formalmente, la riforma era presentata come un passo verso la modernizzazione del quadro normativo e la maggiore tutela degli investitori stranieri.

In realtà, dietro l’apparente apertura si cela una riconfigurazione profonda dei rapporti tra Stato, mercato e capitale privato, volta a riportare sotto controllo pubblico i nodi vitali dell’economia nazionale — e, di riflesso, dell’economia globale.

Negli ultimi cinque anni, Pechino ha progressivamente esteso la logica del controllo statale a una serie di altri comparti strategici, cruciali per la sicurezza tecnologica e industriale del Paese:

  1. Semiconduttori e microchip: dopo le restrizioni statunitensi sulle esportazioni di chip avanzati, la Cina ha accelerato la creazione di campioni nazionali (come SMIC e Hua Hong), sostenuti da fondi pubblici e da una pianificazione statale diretta. I capitali stranieri sono ammessi solo in partnership di supporto tecnologico, non nella governance.
  2. Energia e transizione verde: i grandi gruppi statali come State Grid Corporation of China, China National Energy Group e Sinopec hanno assunto un ruolo dominante anche nelle energie rinnovabili e nelle tecnologie per batterie e idrogeno, settori formalmente aperti agli investimenti ma di fatto coordinati centralmente;
  3. Telecomunicazioni e infrastrutture digitali: con la diffusione del 5G e delle reti quantistiche, il governo ha imposto standard tecnologici proprietari e una supervisione pubblica totale sulle società di rete. I colossi come Huawei e ZTE operano ormai come strumenti industriali della politica tecnologica nazionale, più che come imprese autonome.
  4. Farmaceutica e biotecnologie: l’esperienza della pandemia ha spinto la Cina a rafforzare la catena di produzione interna di farmaci e vaccini, creando conglomerati pubblici che riducono la dipendenza da fornitori stranieri. Le joint venture estere, un tempo centrali, sono oggi in netta contrazione.
  5. Finanza e piattaforme digitali: Dopo il caso Ant Group, Pechino ha imposto un nuovo paradigma: le piattaforme fintech e i giganti digitali devono operare entro limiti dettati dallo Stato. Non si tratta solo di censura o vigilanza finanziaria, ma di riconduzione del potere di credito e dei dati sotto sovranità pubblica.
To top