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Si supponga che il contratto di outsourcing abbia a oggetto la realizzazione di un semilavorato, per cui è necessario impiegare un certo numero di lavoratori, il cui salario rappresenta il costo principale, che inevitabilmente si riversa sull’intera catena di produzione globale che fa capo all’impresa di gruppo. Ciò posto, è evidente che la società controllante che commissiona il lavoro – e che persegue l’interesse globale di gruppo – mira a stabilire un prezzo dell’appalto “al ribasso”, tale per cui viene di fatto stabilito quale debba essere la quota dei salari da destinare ai lavoratori assunti dalla società appaltatrice-controllata. Lo “scambio a contraente unico” posto alla base di questo tipo di operazioni commerciali cela in realtà uno scambio impari tra l’impresa di gruppo – governata dalla controllante – e i lavoratori in outsourcing assunti dalla società controllata e inseriti nella catena di produzione globale.
Una vasta letteratura scientifica conferma che, in effetti, l’espansione su scala internazionale dell’outsourcing (o offshoring, cioè outsourcing in un altro paese) produttivo sia dipesa dall’obiettivo principale di tagliare i costi, e in particolare il costo del lavoro, e non dalla capacità degli outsourcer di offrire ai clienti prodotti e servizi di migliore qualità rispetto alla produzione in house.
Nonostante gli studi sino a ora condotti non possano considerarsi esaustivi e non conducano a conclusioni unanimi[1], è stato rilevato che nell’ambito dei paesi OCSE l’offshoring abbia avuto un impatto negativo non soltanto sui salari ma anche sull’occupazione[2].
Per quanto riguarda nello specifico gli Stati Uniti, tra il 1983 e il 2002 è stato riscontrato[3] un aumento esponenziale del ricorso all’offshoring, nonché la circostanza che i beni siano stati prodotti – per poi essere importati – in paesi a basso reddito. Contemporaneamente, nel settore manifatturiero i posti di lavoro sono diminuiti di circa 6 milioni di unità con un drastico aumento della crescita della diseguaglianza reddituale.
Tra le altre cose, i risultati mostrano inoltre che le multinazionali abbiano contribuito all’aumento dell’occupazione nei paesi a basso reddito mediante le proprie consociate estere.
Un altro studio condotto su alcuni paesi europei (Germania, Italia, Francia, Spagna e regno Unito)[4] ha messo in evidenza come la variabile tecnologica rivesta un ruolo non trascurabile nel rapporto tra offshoring e diseguaglianza salariale. In particolare, è stato rilevato che l’offshoring ad alto contenuto tecnologico fa aumentare il salario dei lavoratori altamente qualificati, e al contempo determina una diminuzione di quelli dei lavoratori meno qualificati. Per giungere a tali conclusioni, è stato considerato un campione di quattro categorie professionali, ossia manager, artigiani, impiegati e operai (manuali). E’ emerso che le mansioni ripetitive svolte nelle fabbriche e nel settore dei servizi – che grazie alla tecnologia possono essere agevolmente spostate nei paesi a basso reddito – sono state duramente colpite dal ricorso all’offshoring da parte delle multinazionali.
[2] Cfr. William Milberg e Deborah Minkler, Outsourcing Economics: Global Value Chains in Capitalist, cit., p. 174.
[3] Avraham Ebenstein, Ann Harrison, Margaret McMillan, and Shannon Phillips, Estimating the impact of trade and offshoring on american workers using the current population surveys, NBER Working Paper Series, n. 15107, National Bureau of Economic Research, 2009.
[4] A. Bramucci, Offshoring, Employment and Wages, cit.